Numero d'ordine: 629
Data: 11 08 1566
Intestazione: VINCENZO BORGHINI IN POPPIANO A GIORGIO VASARI IN FIRENZE
Segnatura: ASA, AV, 14 (XLVIII), cc. 2-3.
Fonte: Magnifico messer Giorgio.
Io mi sono avveduto, poi che io ho preso un granchio, che dovevo scrivere quel capitolo in una lettera a parte; e poi che io ho detto di non mi sentir da scrivere, non ho voluto fare vero il proverbio a fatto a fatto che le bugie hanno le gambe corte. Però risponderò al resto in questa appartata et di più dirò quel che mi occorre.
Quanto all’invenzioni de’ quadri, a me pare che la cosa sia troppo affilata, e che voi voliate; ma questo non darà noia, e bisogna per forza che noi siamo insieme e che si consideri bene ogni cosa: e per questo vi avevo detto che io arei voluto uno spartimento in un foglio con gli schizzi delle istorie per poter accommodar e giudicar i luoghi proprii. Ma invero, se noi non stiamo un dì insieme, non veggo che possiamo far cosa buona. Andate pure a Pistoia, che veggo, che il vescovo v’invita, e Filippo Salviati forse vi prieghi, che bene arete tempo. L’istoria delle nave la scrive il Guicciardino, che ne potrete pigliar uno da’ Giunti e darli un’occhiata. Ma come ho detto, bisogna che la mastichiamo insieme e voi servirete per i denti di sopra, et io per que’ di sotto: pure io andrò in parte pensando.
Io leggo tutto il dì e fo scrivere et ho fatti certi discorsi sopra la pittura, che forse non vi riusciranno mala cosa. A me piacciono eglino; ma mi bisogna, che voi e’l Bronzino mi aiutate in certi particulari, acciò stieno bene a fatto. Fucci dua dì fa messer Piero Vettori, e leggemo la lettera di Michelagniolo, che gli par dura et incivile dove parla del conte, et di quella della boschereccia, cioè di Benvenuto: ridemo tanto, che ancora ridiamo, e conchiudemo, che per quella sua ragione che bisogna, che uno scultore che avessi a fare una istatua di Cicerone sia eloquentissimo; che bisognò, che Perillo quando e’ fece quel toro a Dionisio, fussi un gran bue, e massime poi che il poveraccio vi morì dentro. Ditelo al Bronzino.
Quando i Giunti hanno stampato, fate mi sia mandato di mano in mano.
Ho io sognato o m’è stato scritto, che voi dicevi, che il Duca tornava, perché la Signora è gravida? Di grazia, dite, che Signora? Che io intendo di Donna Isabella, o quel che egli è, che io sappia qualcosa, e vi degnerete salutare in mio nome il signor Montalvo con baciarli un lembo.
Della cosa di Perugia arò caro si usi ogni diligenzia e di vedere con più d’uno quello che si può fare. Batista e Nigi vi potranno ben loro indirizzare per l’appunto. Ma che dico io? Come se voi non lo sapessi senza loro! Di nuovo vi dico quanto a quadri, che a me bisogna agio e buio, e qui non ho libri; et fatta la Madonna, me ne verrò, e ogni dì ci è commodita di scrivere.
Nigi non so se finisca il mio medaglaio; et in quella piramide vi vorrei parecchi cassette, et il più che si può, perché mi multiplicherranno, et io ho caro ogni cosa, se bene non sono perfettissime: in fine d’ogni cosa si cava.
Non vi rimando le lettere, che le voglio un po’ meco. Non andranno già male, ma le voglio rileggere a mio agio; se già non pare a voi, altrimenti che le manderei subito.
Perché io ho detto in quell’altra, che io non mi sento troppo bene, io lo dissi per iscusa. Bene è vero, che il ber fresco troppo non mi ha fatto bene, ma me ne guarderò, questa altra volta cioè.
Quanto agli affanni comuni, dico comuni, perché io sento i vostri come se fussino mia. In questo mondo, messer Giorgio mio, non abbiamo avere beatitudine, e non bisogna spezzarsi il capo. Bene è vero, che chi ha più ventura e chi manco, e chi si fa meglio schermire e chi peggio; pure io vi dico, che attendiate a star sano: che mi pare duriate troppa fatica e col disegnare e col colorire e con lo scrivere, che questa stampa ho paura non vi facci danno, talché io vorrei che pigliassi un passo moderato e non di trotto o di mezza posta, come mi par che abbiate preso. Andatevi a spasso qualche volta, pigliatevi qualche passatempo, lavorate per piacere e non per opera né guardate Francesco di ser Jacopo o altri, che le son meniconerie.
Io ho notato in Lionardo da Vinci, che sarè forse bene mettervi di quel frate che sollecitava Lionardo; e questo non per altro che per poter discorrere, che gli ingegni divini non sono cavalli da vettura, e che quando si stanno, lavorano per cento che portono il vassoio etc. Or dico, che voi stiate sano, che ancor piacerà a Dio darci que’ contento e quella quieta d’animo che non si è avuta fin qui; e non pensate, che io non vegga e non pensi, che pur troppo veggo i fastidii che avete, e non penso altro dì et notte che, se io potessi o sapessi chi potessi levarvegli. Ma bisogna, che voi con la prudenza gli addolciate et con la pazienza gli vinciate, finché a Dio piaccia liberarcene. E però state sano e vedrete mirabilia. Ma non più, che io sono stracco da dovero, che ho già più di cinque faccie con voi. Son digiuno et è 18 hore.
Da Poppiano agli XI d’agosto. La seconda lettera.
Don Vincenzo Vostro
Al Molto Magnifico messer Giorgio Vasari, Pittore Excellentissimo.
Bibliografia: Frey 1930, pp. 268-271.